Che ce ne facciamo delle commemorazioni, se poi tutto ritorna come prima e magari un po’ peggio? Ha senso inneggiare alla legalità, se poi svuotiamo questa parola del suo significato più profondo e intimamente legato alla concretezza dell’azione? Queste e altre domande sorgono spontanee al ripresentarsi di date importanti, legate alla nostra storia e anche al nostro cuore: è questo il caso della giornata odierna, che ci riporta dritti a quel 3 settembre 1982, quando la mafia trucidò il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente della scorta Domenico Russo.
Dalla Chiesa era all’epoca Prefetto di Palermo, ruolo doppiamente ingrato: lui, piemontese di ferro, uomo di spiccata preparazione che aveva fronteggiato e sbaragliato la criminalità di matrice terroristica nei sanguinosi e insanguinati anni Settanta, fu spedito a Palermo per combattere la mafia. Ci sarebbe riuscito, su questo non v’è alcun dubbio, se non fosse stato lasciato completamente solo. Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo era solo. Non per modo di dire, ma letteralmente. Solo. Lui e le sue grandi capacità. Lui e i suoi ideali. Lui e il suo desiderio di liberare la Sicilia dalla morsa venefica della mafia. Quando il generale arriva all’aeroporto di Palermo, non c’è nessuno delle istituzioni ad attenderlo, così raggiunge la prefettura in taxi. Quello è solo il primo segnale: la parte deviata dello Stato è contro di lui e lo priva di uomini e mezzi, in modo da impedirgli di svolgere al meglio il proprio ruolo. Ciononostante, Dalla Chiesa si impegna al massimo e riesce a incutere paura al mostro a tre teste denominato mafia, che non tarda a emettere una sentenza di condanna a morte nei confronti di uno dei migliori uomini su cui lo Stato (nella sua parte sana) abbia mai potuto contare.

Così il 3 settembre 1982 non passa come una data qualunque ma diventa un giorno di martirio ingiusto e odioso nei confronti di tre persone perbene. Per questo è importante non solo ricordare e celebrare, ma anche fare in modo che la memoria sia materia viva, concreta, pugnace. Ricordare i morti per un giorno e poi riporli in un elegante dimenticatoio equivale ad ammazzarli infinite altre volte. Occorre diventare custodi di una memoria viva e vivace, che diventi ogni giorno azione concreta in ricordo di chi è morto inseguendo giustizia e libertà.
Memoria e coesione. Di ricordo straordinariamente vivo ha parlato il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: <<Il ricordo della strage di via Carini continua a interpellare le coscienze di ciascuno con una forza che supera l’esercizio di un doveroso atto di memoria. Questo perché il ricordo di Carlo Alberto dalla Chiesa è straordinariamente vivo. C’è qualcosa, nel suo esempio, che ha saputo suscitare e suscita ancora a distanza di 42 anni dalla morte il senso di un impegno autentico, profondo, incondizionato. La figura di Carlo Alberto dalla Chiesa si staglia in maniera emblematica su larga parte della storia repubblicana del nostro Paese. Gli ultimi mesi come prefetto di Palermo sono solo l’ultimo breve capitolo di una vita dai tratti eccezionali al servizio del bene comune. Carabiniere, figlio di carabiniere, resistente nel corso della seconda guerra mondiale, ufficiale dall’impegno intenso e assoluto ovunque sia stato richiesto il suo servizio: Milano, Torino, Firenze, Roma, Palermo. L’autenticità del suo servizio alla Repubblica emoziona. Ciò soprattutto perché Carlo Alberto dalla Chiesa negli anni più duri del contrasto al terrorismo prima e alla mafia poi ha saputo parlare agli uomini e alle donne, ai cittadini, alle comunità (…) Carlo Alberto dalla Chiesa ebbe, in particolare, l’intuizione di guardare al fenomeno mafioso e alla guerra di mafia secondo un approccio globale e complessivo: egli capì che se la mafia agisce dividendo, la strategia vincente per contrastarla non può che essere quella della coesione. La mafia temeva il prefetto dalla Chiesa, ne temeva il coraggio, l’esperienza e la grande capacità operativa. Bastarono poche e precise dichiarazioni all’indomani del suo insediamento per prendere atto che il prefetto dalla Chiesa aveva compreso le nuove dinamiche mafiose e i pericolosi intrecci con la cd. zona grigia, esattamente quello che aveva consentito alle famiglie mafiose di consolidare la propria forza e di fare un salto di qualità nelle attività illecite. Questo spiega perché la strage di via Carini ha segnato un avanzamento nell’attacco intimidatorio delle cosche allo Stato, colpendo un uomo simbolo della legalità, che aveva dato prova esemplare di straordinaria passione civile e di lucida determinazione nel contrastare ogni forma di crimine. È anche a partire dalle sue intuizioni, dai suoi modelli investigativi e operativi che, negli ultimi quarant’anni, l’impegno delle Forze dell’ordine, della magistratura, della società civile, assieme a nuovi strumenti investigativi e normativi, ha consentito di raggiungere risultati straordinari contro la criminalità organizzata>>.
Memoria in movimento. Del 3 settembre 1982 restano nella memoria una Autobianchi A112 coperta da un pietoso lenzuolo bianco unita a un doloroso senso di sconfitta. A bordo di un’auto il generale Dalla Chiesa è stato ucciso, ma l’auto è per antonomasia simbolo di azione e movimento: la memoria ha bisogno di essere viva, concreta, operosa. Una memoria laboriosa e proiettata in un futuro in cui la vita delle persone sarà del tutto libera dal giogo mafioso: onorare il generale Dalla Chiesa e le altre vittime innocenti della mafia vuol dire anche e soprattutto questo.
<<Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi. Non possiamo delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti>>.
(Carlo Alberto Dalla Chiesa)
