“Qualunque cosa succeda”. Giorgio Ambrosoli e la solitudine dei giusti

L’11 luglio 1979 Giorgio Ambrosoli sta rientrando nella sua abitazione di via Morozzo della Rocca 1 a Milano. Ad interrompere quella routine, una frase pronunciata ad alta voce: <<Mi scusi, avvocato!>>. Poi quattro colpi di pistola che non lasciano scampo al giurista, che è anche marito e padre di tre bambini piccoli. Un uomo giusto cade in solitudine, come una pedina qualunque, nell’insidiosa scacchiera che vede contrapposto lo Stato alla mafia. Con l’avvocato Ambrosoli cade un importante baluardo italiano della giustizia, lasciato solo come tanti altri prima e dopo di lui, nella perversa dinamica dei poteri contrapposti che tali sono solo in parte: dalla parte della mafia ci sono anche comparti corrotti dello Stato. A queste condizioni, un uomo incorruttibile come Ambrosoli non poteva avere scampo. E infatti non l’ha avuto.

L’avvocato e il maresciallo, la solitudine dei giusti. Giorgio Ambrosoli dà fastidio alla mafia per due motivi: il primo è che ha accettato l’incarico (assai insidioso) assegnatogli da Guido Carli, all’epoca governatore della Banca d’Italia, di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, facente capo a Michele Sindona; il secondo è che svolge questo incarico con il massimo rigore. L’avvocato Ambrosoli è un esperto di diritto fallimentare e si muove con sicurezza in mezzo ai fili ingarbugliatissimi dell’istituto bancario di Sindona, caratterizzato da opacità, libri contabili con doppi fondi, intrecci carsici tra mafia (anche quella americana), politica e finanza. Seguono anni connotati da plurimi tentativi di corruzione a cui il giurista si oppone in maniera granitica. Giorgio Ambrosoli, in questa lotta impari contro la criminalità, ha al suo fianco un altro uomo integerrimo e solo, il maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre.

“Qualunque cosa succeda”. Risultati vani i tentativi di corruzione, giungono, terribili e inequivocabili,  le minacce. Nonostante tutto, l’avvocato Ambrosoli va avanti sapendo che il suo percorso di vita è ormai segnato. Lo dimostra la bellissima lettera che scrive alla moglie il 25 febbraio 1975, quando sta per depositare i faldoni contenenti lo stato passivo della Banca Privata Italiana. Si tratta di una lettera colma di lucida rettitudine e di consapevolezza: <<Anna carissima, è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della BPI, atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente di ogni colore e risma non mi tranquillizza affatto. È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese. Ricordi i giorni dell’Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il Paese e non per i partiti: ebbene, a quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo e ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del Paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: e hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo. I nemici comunque non aiutano, e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie. Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […]. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro […]. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava, che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi>>.

Passano altri quattro anni di fatica e solitudine. L’avvocato Ambrosoli ha concluso il proprio lavoro e il 12 luglio 1979 deve consegnare la relazione finale. Muore il giorno prima e al suo funerale non è presente alcun rappresentante delle istituzioni, eccezion fatta per Paolo Baffi della Banca d’Italia e alcuni magistrati milanesi. La solitudine dei giusti lo colpisce fino all’ultimo. Nel 1981 emergono, dai documenti di Licio Gelli e della P2, i tentativi massonici di salvare la Banca di Michele Sindona, che nel 1986 viene condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Ambrosoli. Ergastolo che non sconterà: quattro giorni dopo l’ingresso in carcere, beve quello che è passato alla storia come “il caffè di Sindona”, una bevanda letale a base di cianuro.

Sono passati 45 anni dal vile assassinio dell’avvocato Ambrosoli. Come ogni anno, sono numerose le iniziative istituzionali e culturali finalizzate a ricordare quest’uomo giusto. La memoria, la consapevolezza,  la gratitudine. Come ha scritto Umberto Ambrosoli, che del padre Giorgio ha seguito le orme, nell’incipit del  libro “Qualunque cosa succeda”:<<Cari Giorgio, Annina e Martino, vorrei raccontarvi una storia: una storia bella, emozionante e un po’ complicata, che forse potrà sembrarvi, nella sua conclusione, triste e ingiustamente dolorosa. Eppure credo che quando la avrete conosciuta per intero sarete orgogliosi di farne, in qualche modo, parte>>.

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