Il 23 maggio di ogni anno si rinnova l’antico dolore risalente a quel giorno del 1992 in cui a Capaci trovarono la morte, per vile mano mafiosa, cinque persone perbene: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo. Giovanni Falcone fu ucciso in quanto parte di quel pool antimafia in grado di preoccupare seriamente il potere criminale e la cui creazione si deve a Rocco Chinnici, magistrato valoroso che nel 1983 pagò con la vita l’impegno contro la mafia.
Caparbietà e spirito di sacrificio. Rocco Chinnici nasce a Misilmeri, in provincia di Palermo, il 19 gennaio 1925. Conseguita la maturità classica, si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo. La sua è una famiglia legata alla terra e il giovanissimo Rocco dimostra da subito una accentuata caparbietà: pur di completare i suoi studi, non esita a percorrere molti chilometri a piedi, ogni giorno, per raggiungere le istituzioni scolastiche situate molto lontano da casa. Le strade impervie e tortuose che deve affrontare da ragazzino per andare a scuola sembrano metaforici prodromi delle tortuosità che si troverà ad affrontare da magistrato. Dopo i primi anni di servizio a Trapani e a Partanna, nel 1966 viene trasferito a Palermo in qualità di giudice istruttore; nel 1979 la nomina a Consigliere Istruttore, sempre al Tribunale di Palermo. Nel frattempo Chinnici si sposa e diventa padre di Caterina, Elvira e Giovanni. La primogenita Caterina nel 2014 ha pubblicato il libro dal titolo “E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte. Storia di mio padre Rocco, giudice ucciso dalla mafia”, racconto potente e delicato di un’intera famiglia. Giovanni ha invece scritto il libro intitolato “Trecento giorni di sole. La vita di mio padre Rocco, un giudice scomodo”.
L’amore per la natura lo accompagnerà per tutta la pur breve vita: appena può, il magistrato si rifugia in mezzo al verde insieme alla famiglia per ritemprarsi e ritrovare vecchie abitudini felici, senza mai tralasciare il grande impegno a favore della giustizia. Tutti i pomeriggi, unico tra i magistrati, Chinnici torna nel suo ufficio all’interno del Palazzo di Giustizia di Palermo: porta con sé il figlio Giovanni, all’epoca un bambino; i due si ritrovano quindi soli all’interno dell’enorme edificio. Quella che avvolge Chinnici è una solitudine anche morale: sono anni in cui molti, persino alcuni suoi colleghi, preferiscono pensare che la mafia sia un’invenzione dei giornali. A questa particolare “solitudine” di Chinnici si assommano quelle, non meno dolorose, di altre due figure di spicco della lotta alla mafia: il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo e il commissario di Polizia Boris Giuliano, che troveranno la morte rispettivamente nel 1977 e nel 1979.
Il pool antimafia. Nel 1980 Chinnici crea il pool antimafia, chiamando a farne parte anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulla scorta di un’intuizione: l’importanza di affrontare coralmente indagini di estrema complessità, ma soprattutto condividere le informazioni investigative in modo che la morte di uno di loro non pregiudichi le indagini nel loro complesso, come invece era avvenuto fino a quel momento. Grazie a questa lucida intuizione anche dopo la morte di Chinnici si arriva al maxi processo, le cui radici affondano proprio nell’Ufficio Istruzione da lui diretto. <<L’aspetto strategico, e forse quello geniale per quegli anni – ha chiarito in un’intervista Rai il giornalista Nicola Lombardozzi – fu capire che quando moriva un giudice, un poliziotto, un servitore dello Stato, con lui finivano le indagini, perché l’investigatore era solo. Con l’invenzione del pool antimafia avevano a disposizione le indagini l’uno dell’altro e lo scambio continuo di informazioni fu determinante>>.
Follow the money. Seguire pedissequamente i flussi di denaro e impostare una forte azione di contrasto patrimoniale alla mafia, identificare i centri di potere economico sulle cui fondamenta si regge la soverchieria mafiosa. Non solo. Collegare reati apparentemente scollegati, individuare connessioni, leggere tra le righe. Scoperchiare gli affratellamenti di potere, mettere in relazione i conti correnti e i volti, i bonifici e i nomi. Quando Giovanni Falcone e Paolo Borsellino entrano all’Ufficio Istruzione della sezione penale del Palazzo di Giustizia palermitano, la sintonia con Chinnici appare piena anche sotto questo profilo: i tre magistrati comprendono che per ricostruire le dinamiche carsiche del potere mafioso è necessario ricorrere agli accertamenti bancari. Un metodo d’indagine, questo, sintetizzabile attraverso l’espressione anglofona follow the money, la cui portata innovativa viene ben presto compresa anche all’estero. La mafia e la finanza, la mafia e la politica, la mafia e l’imprenditoria. Un denominatore comune: il denaro e, quindi, il potere. In un’intervista televisiva del 1982, è lo stesso Chinnici a chiarire i contorni della questione: <<Quando si dice che a Palermo buona parte dell’economia si fonda sulla droga, non si esagera: i processi che sono stati definiti, anche al dibattimento, provano in maniera incontrovertibile questa nuova realtà, cioè la mafia grande imprenditrice, la mafia grande potenza economica>>.
Chinnici, il magistrato gentile. Un uomo molto rigoroso ma anche attento a rispettare tutti, imputati compresi. Racconta il figlio Giovanni, intervistato da Serena Bortone: <<Mio padre era un uomo molto rigoroso ma che interpretava il suo ruolo con grande umanità e questa è una delle caratteristiche della sua personalità che io forse ammiro di più: la capacità da un lato di essere rigoroso nell’applicazione del diritto, della legge, ma anche di sapere trattare tutti, compresi i suoi imputati, sempre con grande attenzione e grande umanità. Papà io l’ho definito, con una citazione del grande Franco Battiato, un “centro di gravità permanente” della nostra famiglia: era un uomo con una fortissima personalità, rigoroso ma anche estremamente generoso e affettuoso>>.
Il dialogo con i giovani. Rocco Chinnici ha sempre creduto nell’importanza del dialogo con la città e, in particolare, con i giovani: attraverso seminari, convegni e lezioni, ha spiegato che cos’è la mafia e perché è necessario combatterla a tutti i livelli. <<Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza noi, da soli, non ce la faremo mai>>, questo sosteneva il magistrato. E alle nuove generazioni indicava un necessario cambio di mentalità, che passava attraverso una corretta informazione. In occasione di un corso di aggiornamento per docenti e presidi delle scuole secondarie, Chinnici predispone un saggio dal titolo “Aspetti e problemi della legge 22 dicembre 1975 n. 685”, in cui scrive: <<La mia fiducia è nelle nuove generazioni, nel fatto che i giovani si ribellano, respingono il potere della mafia. Questa è la grande speranza che sta germogliando. E’ necessaria però un’opera di più ampia sensibilizzazione, specialmente in rapporto al fenomeno droga e alle centinaia e centinaia di milioni che la sua organizzazione comporta. La nostra società corre un gravissimo pericolo, ecco perché i giovani devono insorgere contro la mafia e la sua droga, con tutte le forze e il coraggio che hanno. […] Abbiamo i grossi problemi della crisi economica, della politica, e si è portati a sottovalutare quello della droga i cui effetti deleteri non li vediamo ancora, ma li vedremo fra dieci anni. Perché il tossicodipendente diventa un peso per la società, oltre che per le famiglie. […] I nuovi accattoni sono i drogati. I furti nell’appartamento, delle autovetture! La piccola rapina al portinaio dello stabile è opera spesso di drogati, perché il delinquente non rischia di rubare il portafogli con il rischio di venire arrestato. Ecco il problema, che prima di essere giudiziario è sociale, civile, umano>>.
Rocco Chinnici trova la morte a soli 58 anni nel 1983, in un’assolata giornata di luglio, davanti al portone di casa in via Pipitone Federico a Palermo. Una Fiat 126 imbottita di tritolo fa saltare in aria un intero quartiere e, oltre al magistrato, uccide i giovanissimi carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Racconta ancora il figlio Giovanni:<<Quando papà è stato ucciso, noi ci siamo sentiti soli prima di tutto perché è venuto a mancare un punto di riferimento di tutti noi, e anche dal punto di vista delle istituzioni: questa strage non fu compresa e, per effetto di questo, siamo rimasti soli, non c’è stato un aiuto>>. Forse qualcuno, all’epoca, si ostinava a pensare a questi brutali omicidi come semplici coincidenze, ma, come diceva lo stesso Chinnici, <<In Sicilia le coincidenze ci sono solo per i treni>>.
